DIARIO DI UNA COMUNITÀ IN QUARANTENA

DIARIO DI UNA COMUNITÀ IN QUARANTENA

Il Diario di quarantena della Comunità Aleida

Caro diario,

ci presentiamo così. Siamo una comunità di accoglienza per donne straniere. Viviamo in isolamento come tutti in questi tempi che ci costringono a stare in casa, fortunate di avere due case noi, una le nostre ospiti. Dentro le nostre case lavoriamo dal pc, facciamo riunioni in videochiamata, scarichiamo film, immagini da colorare, la connessione funziona meglio e ci permette di recuperare cose da portare nella nostra seconda casa. Dove entriamo con cautela a incontrare due donne, che un po’ sono famiglia e non solo lavoro. Ce n’è un’altra che adesso si trova in Africa, dov’era andata a incontrare sua madre (non la vedeva da cinque anni!) e che sarebbe dovuta rientrare per cominciare un nuovo corso professionale e poi un nuovo lavoro. Ma i voli sono stati cancellati, anche il corso e forse l’opportunità di lavoro.

I piani sono cambiati per tutti, anche per chi li aveva molto semplici. Abbiamo deciso di provare a raccontare un po’ come resistiamo in questi giorni attraverso un diario “a traccia libera”.

25.03.2020 – 02.04.2020 – Cronache mentali nei giorni di quarantena

Fino a non molto tempo fa il modo migliore per mettere in ordine i miei pensieri era una lunga passeggiata oppure un bel giro in bicicletta. Mi piace immaginare che presto tornerà a essere così, perché di ordine dietro un cancello non riesco a trovarlo nemmeno nel mio piccolo giardino. E meno male che ci sono i fiori, oltre la neve di marzo. Dentro quattro mura non so se riuscirei a non impazzire del tutto. Solo un po’ guardando in alto va meglio, col cielo grigio è ancora più difficile, ma l’importante è che ci sia un orizzonte lontano e non solo delimitato. Anche le facce sono delimitate da uno schermo in questi giorni. Troppi confini.

Dentro i confini, un affollamento di stimoli. A riflettere sulle necessità reali e quelle immaginarie, sulle opportunità perdute o da sfruttare, sui cambiamenti possibili figli dell’emergenza. Sulle possibilità di dare aiuto. Sull’importanza di narrare in questo momento. Di reinventarsi. Di non provare a immaginare il futuro perché troppo annebbiato da ansie e paure. A interrogarsi sui confini professionali, sulla relazione nel lavoro sociale.

Riorganizzare il tempo” suona elevato come concetto ma scaturisce da una necessità impellente. Come occupare le ore di un contratto pensato per stare in relazione senza stare in relazione oppure standoci molto poco. Stare nella relazione a distanza. Dietro una telecamera, dentro uno schermo. Delimitati da un confine dopo una vita a lottare per abbattere i confini. Allora programmare. Leggere, cancellare, archiviare, catalogare 600 email di qualche anno in pochi giorni. Sentirsi ossessivi e ossessionati, attaccarsi alla precisione.

Sentirsi esistenzialisti senza riuscire a trovare le parole per dirsi. Colorare per sentirsi meglio.

Assecondare un’attitudine spesso trascurata in passato perché apparentemente futile e riscoprirla fondamentale.

Stare nella relazione diventando un po’ alieni. Con un volto coperto a metà da una mascherina (magari l’altra metà con gli occhiali appannati) oppure togliersela e stare ancora più lontani. Circondati dal distanziamento sociale, in quella distanza che sembra vuota ma è abitata fortissimamente dalla paura. Lavarsi continuamente le mani fino a consumarle.

La paura di essere contagiati o soprattutto di contagiare. Un nemico invisibile che può essere asintomatico o molto cattivo. Sintomo deriva dal greco e significa “avvenimento fortuito”, letteralmente “caduto insieme”. L’ho appena cercato su internet. Così, perché per dare un senso a quello che ci accade provo a cercarlo nel senso delle parole. Ci accade fortuitamente. Nella vita ci vuole fortuna.

Impossibile evitare di stare in relazione con se stessi in un tempo che ci costringe a fermarci, abituati com’eravamo a correre per evitarci. Inventare un laboratorio. Distrarsi e inventarne un altro.

Guardare un film. Addormentarsi e sperare di svegliarsi meglio. Ma ricordarsi che questo non è un film.

Stupirsi della preoccupazione di G., nostra ospite, per i politici nigeriani: se si ammalano come faranno a curarsi? Prima prendevano un elicottero e venivano a curarsi in Europa. Ma adesso è tutto bloccato, come faranno? Ingenuamente chiederle se con i soldi dei politici si possono costruire ospedali in Africa. Ma no, gli africani poveri che sono per strada muoiono e basta, non gli importa a nessuno. Ripensare quindi alla linea della fortuna. Alle mura di casa e al giardino.

Sentire E. che sta con sua madre. Fortunata di essere con lei in un momento di difficoltà, sfortunata nel posto sbagliato. E sperare che la linea della fortuna prenda la giusta piega anche per loro.

La gratitudine e la preoccupazione. L’ascolto e la curiosità. Provare a imparare. “In questo tempo di mestizia ci vuole più raccoglimento”. Pensare a come raccogliersi e raccogliere.

Luisa

Marco Ferrero e Nicola Grigion su Indeep scrivono su come possiamo affrontare il nostro essere operatori sociali ai tempi del coronavirus. Fanno riferimento a delle categorie classiche non solo del nostro lavoro, ma delle fasi di crisi in generale:

– davanti a situazioni troppo grandi bisogna scomporre il problema in piccole parti e darsi delle priorità

– non intestardirsi facendo le cose di sempre, ma cambiare approccio, essendo pronti al cambiamento

– fare leva non solo sulle nostre competenze/conoscenze ma sul “saper essere” un operatore sociale.

Sul nostro essere operatore sociale dicono di pensare che mai come oggi va messa in discussione la “geometria delle relazioni d’aiuto”, perché in questo momento più che mai dobbiamo considerare che quello che fa bene a noi probabilmente fa bene anche alle persone con cui lavoriamo.

È stato sempre così, ma oggi, mentre permangono le differenze tra noi e loro, il fatto di essere sottoposti agli stessi limiti, alle stesse paure, alle stesse incertezze, ci avvicina e ci accomuna. Gli autori ci fanno riflettere sul fatto che siamo accomunati dall’attenzione per la salute (distanze, lavarsi le mani, mascherine…), sulla necessità di non impazzire sommersi da migliaia di stimoli informativi (inutili, dannosi), e quindi di selezionare quanto ci serve per dare un senso al mondo (al nostro mondo). Sottolineano come cerchiamo di rompere l’isolamento attraverso piattaforme comunicative tecnologiche, e di combattere l’abbandono e la noia organizzandoci il tempo…

Ieri queste cose le dicevamo alle nostre beneficiarie, e oggi lo diciamo anche a noi stessi, ce lo ripetiamo come un mantra. Tutto giusto, tutto da sottoscrivere. Ma poi? Come lo mettiamo in pratica? Come si passa dalla definizione di principi alla pratica applicazione di questi principi? Ci provo. Prendendo solo alcuni spunti.

Oggi passo più tempo di prima ad Aleida, ci diamo il cambio con le colleghe per stare vicino alle ragazze. Lo faccio perché c’è bisogno (anche di condividere il rischio dell’esposizione) e anche per compensare il disagio che provo nel non condividere il rischio a cui sono sottoposti gli operatori dei Siproimi.

Ed è cambiata – sta cambiando – la mia relazione con le ragazze: mi parlano di loro, della gratitudine che hanno per il fatto che hanno una casa e tante attenzioni, mentre molte altre ragazze stanno per strada. Dall’Africa le chiamano amici e parenti preoccupati per loro che stanno in questa Italia dove si muore, e loro sono preoccupate per i loro amici e parenti africani, perché non potranno stare in casa, non potranno rimanere isolati. Vedo le ragazze non solo come “beneficiarie” ma come persone con cui sto condividendo un periodo eccezionale, che resterà per me e per loro, per sempre…

Ho paura per me, per mio padre, per i miei cari. Così come loro…

La distanza ci obbliga ad utilizzare metodi di comunicazione alternativi. Ci guardiamo negli schermi e ci diamo tempi e metodi per esprimerci. E io mi confronto con la mia difficoltà ad esprimermi senza poter “sentire” fisicamente la vicinanza degli altri. Non è per me una comunicazione fatta solo di parole, di sintesi… come un attore di teatro non si adatta facilmente alla finzione del cinema (senza un pubblico davanti che respira con te) io sono a disagio davanti a questi schermi divisi in tante facce… Questa situazione ci fa diventare più tecnologici, ma, almeno a me fa capire quanto sia indispensabile il contatto, la prossimità, il linguaggio non verbale… E questo mi fa tornare al saper essere operatrice sociale. Non esistono gli operatori sociali solitari. Esistono le equipe di lavoro. Esistono le colleghe e i colleghi. Passiamo buona parte della nostra formazione a definire con precisione i confini, per evitare di essere troppo personali e poco professionali, per contenere nei nostri ruoli la nostra umanità. Diciamo che è per il bene degli utenti, e per la nostra protezione. Ma è anche perché forse siamo sempre più incapaci di dirci le cose importanti, di sostenerci come esseri umani.

E oggi invece capiamo che abbiamo un disperato bisogno che i nostri colleghi siano anche nostri amici (che bestemmia!!) perché rischiamo insieme, e abbiamo paura insieme. E vogliamo tornare a stare insieme a sederci in cerchio, e a mangiare insieme, e a camminare insieme, ballare, piangere, ridere. E oggi possiamo permetterci di dircelo. Che nessuno si salva da solo (e che il personale è politico!!). E che in questo lavoro metterci l’anima non è una debolezza, ma l’unico modo per farlo.

Marcella

01.04.2020 – Il giorno 1 del mese 4

Mia nonna mi ripeteva da bambina che il primo giorno di ogni mese era un giorno fortunato. Si poteva chiedere qualsiasi cosa al giorno 1, credere qualsiasi cosa purché si fosse convinti e se le cose non fossero andate come si voleva, nessun problema, ci sarebbe stato pur sempre il giorno 1 del mese 2 pronto ad accoglierti.

È così, tra credenze e certezze, ancestralità e ricordi che voglio vivere questa giornata. Mi sento più al sicuro nei miei ricordi, più vicina ai miei affetti.

Avevo appena 19 anni quando sono andata via. Ho lasciato i miei luoghi, la mia terra, la mia famiglia per “una vita migliore”.

Sì, la convinzione era questa: “una vita migliore”. Crescendo, invece, immagini quanto sarebbe stato bello poter costruire la “tua vita migliore” lì, nel posto in cui hai lasciato ogni volta che ci ritornavi pezzi di cuore e frammenti di te. Ti ritrovi a metà. Non vivi a pieno i luoghi, li attraversi. Niente sarà come la tua casa e la tua casa non sarà più la stessa ogni volta che ci ritornerai. Questa è la continua battaglia che vivo. Forsennatamente e senza accorgermene ricerco casa in tutti i luoghi che attraverso. Mia madre mi diceva sempre: “Ricorda che la tua casa sarà sempre ovunque saremo noi e sarà ovunque tu vorrai con chi ami”, me lo diceva quando in preda al panico la chiamavo perché avrei tanto voluto un suo abbraccio o una sua carezza di conforto per ogni volta che tornavo stanca da lavoro e dovevo studiare, cucinare, far la spesa, mettere a posto, mettermi a posto o quando l’esame non era andato come avrei voluto e minacciavo di lasciare tutto e ritornare a casa, lei era sempre lì, pronta a ricordarmi che casa non è un luogo fisico ma un luogo in cui ci si sente al sicuro, a proprio agio, amati. Casa, sei anche tu che da sola vivi e ti vivi con rispetto ed amore..

Per tutto un anno ho vissuto la comunità, ogni giorno per 6 ore o più, dal lunedì al venerdì. Ho vissuto le gioie più belle della mia vita: la fine degli esami, la mia laurea e anche l’organizzazione del mio matrimonio che sin da subito ha previsto gli inviti per loro e i rispettivi fidanzati. Le ho vissute con loro queste gioie, le mie ragazze. Tanti i momenti di scontro e tanti di crescita, altrettanti di condivisione e conoscenza.

Il momento che amavo di più era l’arrivo in comunità. Entrare, salutare, fare il giro di ricognizione nelle camere, ritrovarci nel soggiorno e parlare, chiedersi ed interessarsi, prendersi cura. Sì, prendersi cura. Una parola troppo inflazionata, solo pochi ne custodiscono l’essenza. Prendersi cura è un atto quotidiano di amore che non ammette distanze e non è unilaterale. Quando ci si prende cura degli altri lo si fa partendo da se stessi, non egoisticamente ma nell’orizzontalità della pratica.

Tutto questo è ormai difficile, amorfo, alieno… Ci si prende cura attraverso uno schermo, una voce. Mi ripeto che è necessario continuare perché, al momento, i vuoti possono essere colmati solo così, con immagini frastagliate e voci che vanno e vengono in base alla tenuta della linea internet. Durante le lunghe telefonate con G. cerco sempre di non far trapelare la mia angoscia, la mia paura e le ripeto che questa situazione presto finirà e potremo tornare a riabbracciarci. Ascolto con impotenza le sue angosce, le preoccupazioni che riguardano i suoi amici e parenti in Africa o quelli più vicini che non hanno una casa ma che vorrebbero tanto averla in questa paradossale situazione in cui ti obbligano a #stareacasa. Ascolto ancora, le paure di E. che è tornata a riabbracciare i suoi cari dopo tanti anni ed ora è bloccata in attesa di poter ritornare e ancora, ascolto le preghiere di O. e i suoi canti in diretta mentre implora Dio di salvarci tutti (mio fidanzato compreso) da questa malattia. Ascolto, attraverso un telefono e non di persona come vorrei, e mentre mi parlano vorrei tanto, anche se a distanza di un metro, poterle guardare negli occhi e poter dire loro che andrà tutto bene, e vorrei abbracciarle. Sì. Forte forte come facevamo prima delle regole e del distanziamento sociale. Trattengo le lacrime a stento tutte le volte che mi dicono: “Mi manchi Maria” e poi subito dopo: “Ma tu, stai bene?”.

Tutto questo mi preoccupa. Mi preoccupa la loro salute, la vostra, la mia e quella delle persone che amo che non sono vicine a me. Mi preoccupa il presente e il domani. Mi preoccupa sentir dire che il problema sono i corridori amatoriali e non la politica che obbliga tanti lavoratori e lavoratrici a rischiare, continuando a lavorare senza protezioni e a dover rimettere la decisione tra morire di fame o morire lavorando. Mi preoccupa vedere che una profumeria è un bene necessario ma non le librerie, come se la cultura non fosse necessaria.

Tutto il giorno cerco di distrarmi: pulisco, cucino, studio, leggo, scrivo, chiamo e videochiamo, ma non basta. Ho bisogno di prendermi cura, ma a mio modo. Mi manca prendermi cura delle ragazze insieme a voi, di me stessa viziandomi con una lunga passeggiata sulla mia spiaggia guardando il mio mare, di curare e coccolare i miei genitori con piccoli pensieri e premure che mi fanno sentire sicura e al sicuro, di pensare senza costrizioni, limitazioni o misure di sicurezza.

Dall’inizio della mia quarantena ho iniziato ad appuntare, raccontare e raccogliere ogni giorno i miei pensieri e le mie emozioni e a scattare foto agli elementi che mi circondano dentro e fuori casa perché tutto questo possa ricordarmi cosa e come ho vissuto perché non voglio dimenticare nulla, voglio ricordare.

Maria

Poi c’è Rosanna. Che non trova troppa ispirazione per il diario e quindi la ammiriamo in silenzio. Ché tutti i giorni – non solo perché è la più vicina geograficamente – lei in comunità ci va, per la spesa, la pizza, le chiacchiere dal vivo, le mascherine, i piccoli problemi quotidiani che ci ricordano quali sono veramente le cose indispensabili.

Poi ci sono i modi in cui “ingannare” il tempo. Riempirlo. Viverlo, perché non possiamo ibernarlo. Vedere un film, colorare, scrivere…

12.4.2020

Chi avrebbe potuto pensare che un giorno come questo sarebbe arrivato. Un giorno in cui tutti hanno paura di uscire liberamente, a causa di una malattia letale chiamata coronavirus, il mondo non è più un posto sicuro. Tutti sono preoccupati, siamo tutti nelle nostre case da qualche settimana, nessuno sa per quanto tempo ancora, chiediamo solo la grazia di DIO. Non possiamo più uscire o visitare qualcuno. Mi mancano quelle volte in cui potevo uscire e divertirmi, ma adesso le cose sono diverse. Le persone muoiono e si ammalano, tutti hanno paura per le loro vite a causa del virus. Non riusciamo ad aspettare per tornare alle nostre vite normali, chiediamo solo a DIO di curare il mondo perché solo lui farà andare tutto bene. Così alla fine di questi giorni saremo di nuovo felici.

Omo

16.04.2020 – Dall’Africa

Questo coronavirus o covid 19 ha causato danni a tutto il mondo. E ora milioni di persone hanno perso la vita e tantissime persone stanno in ospedale, e hanno la difficoltà di respirare. Tante persone hanno perso il lavoro, così come molte persone stanno morendo di fame. E la paura che noi abbiamo nel nostro cuore è che non sappiamo nemmeno quando finirà e come sarà la nostra vita quando passerà il virus. In Africa, per esempio, ci sono le mafie che vanno casa delle persone per rubare i cibi, i soldi. In più uccidono le persone che non hanno niente da offrire. C’è paura ovunque.

Speriamo che andrà tutto bene.

Eve